Finora abbiamo imparato a condividere l’utilizzo della macchina o della bicicletta, ma non tutti sanno che è consentita anche la condivisione del posto di lavoro. Anzi, l’eventualità ben presto potrebbe diventare familiare, complici le solite difficoltà occupazionali. Il cosiddetto job sharing o contratto di lavoro ripartito, a dire il vero, è stato introdotto in Italia qualche anno fa, ma si tratta di una forma di impiego ancora non particolarmente diffusa, sebbene in espansione.
Negli Stati Uniti e in altri Paesi europei, invece, si è già affermato in modo significativo. In sostanza, con il job sharing due persone occupano la stessa posizione lavorativa all’interno dell’azienda. Infatti, non è altro che un contratto di lavoro subordinato tra il datore di lavoro e due (o più) lavoratori, che dal punto di vista strettamente giuridico assumono in solido l’obbligazione di eseguire la prestazione lavorativa (anche se in alcuni ordinamenti è prevista la responsabilità individuale). In pratica, sono liberi di organizzarsi nell’espletamento della prestazione, a cominciare dalla suddivisione dell’orario di lavoro. Naturalmente, nel caso uno dei due non possa svolgere la sua parte, l’altro è tenuto a sostituirlo.
Un paio di anni fa è stata Luxottica a testare il job sharing con un modello a spiccata vocazione “familiare” e quasi con valenza di welfare, in grado cioè di tutelare il reddito della famiglia del proprio dipendente sfruttando la capacità dei suoi componenti più “deboli” dal punto di vista lavorativo. E quindi consentendo la condivisione del posto tra dipendente e coniuge in difficoltà (disoccupato o in cassa integrazione), tra dipendente e un figlio vicino alla conclusione degli studi o tra dipendente impossibilitato a lavorare e coniuge o figlio senza lavoro. Insomma, un job sharing praticamente imposto dalla crisi economica e occupazionale.
Nel nostro Paese il ricorso al contratto di lavoro ripartito, in effetti, potrebbe sempre più assumere significato e imporsi in virtù (o in conseguenza) dei drammatici indici di disoccupazione. Ma altrove, in Germania ad esempio, il lavoro ripartito è la formula che si utilizza nella sua logica originaria, cioè quella che consente soprattutto alle donne di conciliare il loro legittimo percorso professionale con altrettanto legittimi impegni familiari.
Molto difficile calcolare l’evoluzione del destino del job sharing in Italia, dipendente probabilmente anche dal definitivo cambio di rotta culturale sul lavoro, sempre più intimamente connesso alla flessibilità. Apparentemente sembra una forma contrattuale priva di effetti collaterali, semmai con qualche difetto. Certo, è innegabile che ripartirsi il posto di lavoro significa essenzialmente anche ripartirsi lo stipendio. Si guadagna meno, quindi, ma si riesce a fare altro.